Domande frequenti e curiosità
Ecco le domande frequenti che ci fanno le persone che vogliono conoscere la storia a fondo
Roma non è mai stata di fatto "città aperta". Il governo Badoglio dichiarò unilateralmente, il 14 agosto 1943, di considerare Roma come città aperta (cioè demilitarizzata), ma gli Alleati non accettarono. Il gen. Calvi di Bergolo firmò la resa di Roma ai tedeschi il 10 settembre 1943, e le condizioni di resa stabilivano che:
"[...] le truppe tedesche devono stare ai margini della città libera di Roma, salvo l'occupazione della sede dell'ambasciata di Germania, della stazione radio di Roma I e della centrale telefonica tedesca. S.E. il generale di divisione Calvi di Bergolo, nominato comandante della città aperta di Roma, avrà alle sue dipendenze una divisione di fanteria per il mantenimento dell'ordine pubblico, oltre tutte le forze di polizia".
L'Osservatore Romano, 12/9/1943.
I termini non vennero mai rispettati dai tedeschi. Kesselring installò in città vari comandi militari e di polizia, la usò come via di transito per truppe e rifornimenti, eseguì rastrellamenti, arresti, deportazioni, fucilazioni e torture, gestiva il carcere di via Tasso e due bracci di Regina Coeli. Fece arrestare il generale Calvi di Bergolo col suo stato maggiore e trasferì ogni potere al comando tedesco.
C’erano partigiani che combattevano in zone rurali del Lazio, soprattutto nei monti del reatino e altri in una città che era militarmente occupata dai nazifascisti che quotidianamente depredavano, arrestavano, deportavano, torturavano, fucilavano.
Gli ufficiali erano tedeschi e la truppa dell’Alto Adige, in quel momento sotto occupazione
tedesca: diversi di loro scelsero la cittadinanza tedesca. A prescindere dalla nazionalità
erano sotto il pieno comando tedesco e avevano prestato giuramento di fedeltà ad Hitler.
Venivano usati regolarmente in operazioni di polizia e rastrellamento contro la
popolazione italiana. Dall’Alto Adige furono reclutati 3 battaglioni, i primi due impegnati in
azioni antipartigiane in Jugoslavia e nordest d’Italia e il terzo inviato inizialmente a Roma
con funzioni di addestramento e ordine pubblico. Quest’ultimo, con il ritiro dei tedeschi da
Roma, fu inviato a nord della linea Gotica in azioni di rastrellamento antipartigiane. Questi
battaglioni si macchiarono di stragi di civili e alcuni dei soldati furono processati per
questo.
Al momento dell’attentato in effetti non lo erano, ma erano sotto il comando delle SS.
Poco tempo l’attentato dopo furono incorporati pienamente nelle SS diventando SS Polizai
Regiment Bozen
Il reparto tedesco, composto da 156 soldati, proveniva da un’esercitazione al poligono di
tiro e al momento dell’attacco marciava in colonna, con fucili in spalla con il colpo in canna
e bombe a mano alla cintola, (molte esplosero dopo lo scoppia della bomba dei partigiani,
facendo scempio dei corpi di chi le indossava). In testa e in coda c’era la scorta di pattuglie
con mitragliatrici su motocarrozzette.
Konrad Sigmund, un superstite, dichiarò:
"Avevamo tutti cinque o sei bombe a mano attaccate alla cintola"
Un altro superstite, Franz Bertagnoli:
"Anche quella mattina, [...] ci dettero l'ordine di tenere il colpo in canna e di essere pronti
a sparare".
(U. GANDINI, "Quelli di via Rasella" dossier pubblicato su L’Alto Adige)
Il più anziano, 42 anni, era Jakob Erlacher, il più giovane Franz Niederstaetter, 27
anni. L’età media delle vittime era di 33,6 anni.
Nel 1996, Il Giornale scrisse una serie di articoli descrivendo la colonna militare come
composta da persone anziane e poco o nulla armate: proprio su quella vicenda la
magistratura italiana condannò la testata per diffamazione in una causa intentata dai
partigiani sopravvissuti. La stessa sentenza descriveva i militari come di nazionalità tedesca
-benché nati in Alto Adige avevano optato per quella cittadinanza- non particolarmente
anziane ma bene armate
I partigiani scegliendo di opporsi al regime sapevano di rischiare ogni momento la vita in
una città piena di informatori del regime e di bande specializzate nella tortura. Ovviamente
per la sproporzione di forze ed equipaggiamento non avrebbero potuto reggere nello
scontro in campo aperto e adottarono tecniche di guerriglia, su questo incoraggiati -e
armati- dalle forze alleate. Nell’attentato, dopo lo scoppio dell’esplosivo nel carretto, una
seconda squadra di Gap con 5 rudimentali bombe a mano (bombe da mortaio adattate) e
con pistole.
Il Feldmaresciallo Kesselring al processo dichiarò:
DOMANDA: Faceste qualche appello alla popolazione romana o ai responsabili
dell'attentato prima di ordinare la rappresaglia?
KESSELRING: Prima no.
D.: Avvisaste la popolazione romana che stavate per ordinare rappresaglie nella
proporzione di uno a dieci?
K.: No. [...]
D.: Ma voi avreste potuto dire 'se la popolazione romana non consegna entro un dato
termine il responsabile dell'attentato fucilerò dieci romani per ogni tedesco ucciso'?
K.: Ora, in tempi più tranquilli, [...] devo dire che l'idea sarebbe stata molto buona.
D.: Ma non lo faceste?
K.: No, non lo facemmo.
(Atti del processo Kappler, Tribunale Militare di Roma).
La genesi di questa falsa notizia parte dal federale di Roma, Giuseppe Pizzirani e altri la riproposero fino ad oggi.
“Qualche giorno dopo, il federale di Roma Pizzirani che deve gestire lo choc di una città che sta scoprendo cos’è successo alle Fosse Ardeatine, dichiarerà per la prima volta che la colpa è di quelli che hanno fatto l’attentato che se si fossero presentati non ci sarebbe stata la rappresaglia. […] Nel 1948, i comitati civici anticomunisti di Gedda battono e ribattono: “Quei vigliacchi non si sono presentati quando gli era stato chiesto di presentarsi. Se fossero venuti non ci sarebbero stati i martiri delle Fosse Ardeatine”.
(Alessandro Barbero, I Partigiani, l'Attentato di via Rasella
Lo storico Alessandro Portelli ha fatto ricerche così approfondite da aver dimostrato con assoluta certezza che non ci fu nessun comunicato del genere, ma solo quello pubblicato dopo l’eccidio da Il Messaggero che annunciava la rappresaglia e concludeva: “l’ordine è già stato eseguito”
“Anche se tutti voi potete incontrare persone convinte di aver sentito alla radio l’appello a presentarsi o convinte di aver visto i manifesti che chiedevano ai responsabili di presentarsi. Una cosa strana e affascinante e ha che fare con il modo in cui noi esseri umani reinventiamo la memoria”.
(Alessandro Barbero, I Partigiani, l'Attentato di via Rasella
In realtà, a parte la dinamica dei tempi che non avrebbero permesso di avvertire la popolazione ed eseguire la strage meno di 24 ore dopo l’attentato di via Rasella, i tedeschi -tememndo una rivolta della popolazione- fecero di tutto per tenere nascosta la notizia della Strage, scegliendoun posto isolato, uccidendo ogni testimone, facendo saltare con le mine l’ingresso alle Cave Ardeatine. Kappler dichiarò al processo che lo vedeva imputato che loro non si erano neanche preoccupati di cercare i veri colpevoli tanto erano sicuri che la popolazione li avrebbe coperti
(“L'eccidio delle Fosse Ardeatine - Speciale 24 Marzo”, Alessandro Barbero
Subito dopo l’attentato i tedeschi cessarono di far sfilare i loro battaglioni in città e gli
alleati che fino a quel giorno la bombardavano quotidianamente, dal 23 marzo, per due
mesi, cessarono i bombardamenti.
(“L'eccidio delle Fosse Ardeatine - Speciale 24 Marzo”, ALESSANDRO BARBERO
Il morale delle truppe tedesche ne risentì come dichiarò il comandante Kesselring al
processo:
"Roma era diventata per noi una città esplosiva ... Per noi era un grave problema
quello della sicurezza nell'immediata retrovia del fronte. Tra l'altro ne risentiva
direttamente anche il morale delle truppe combattenti, che non si potevano più
mandare a Roma per brevi periodi di riposo e di licenza".
(Atti del processo Kesselring, Tribunale militare britannico di Trieste, 1946-47)
Secondo Mark Clark – comandante della V Armata che entrò a Roma il 4 giugno – per il
morale delle sue truppe era molto importante sapere che la popolazione civile stava dalla
loro parte, e che alle spalle del nemico i partigiani non lo facevano sentire mai tranquillo.
“I nostri alleati sono rimasti stupefatti e ammirati dell’attacco di via Rasella. Il
Generale Alexander, comandante di tutte le truppe alleate del Mediterraneo disse
che lui aveva cominciato a rispettare gli italiani quando aveva scoperto che Roma
era “una città che aveva osato sfidare in pieno centro un battaglione tedesco
armato”.
(L'eccidio delle Fosse Ardeatine - Speciale 24 Marzo, ALESSANDRO BARBERO
“C’è chi ha detto: ‘non dovevano fare l’attacco perché sapevano che i tedeschi poi
avrebbero ucciso 10 persone per ogni caduto’ e anche qui infinite discussioni per
decidere se, sapendolo, bisognasse fare l’attacco lo stesso oppure no, finché gli
storici non se ne sono occupati e hanno scoperto che fino a quel momento, mai i
tedeschi avevano fucilato 10 persone per ogni caduto. A Roma c’erano stati
innumerevoli attentati moltissimi tedeschi uccisi e mai c’era stata una rappresaglia
in quelle proporzioni, nessun manifesto l’aveva minacciato, l’unica cosa che i
tedeschi avevano sempre detto e ripetuto e i che gappisti sapevano perché quello si
stava scritto sui manifesti era: ‘Chi attacca i tedeschi sarà punito con la morte’”
(L'eccidio delle Fosse Ardeatine - Speciale 24 Marzo, ALESSANDRO BARBERO
Solo nel mese di marzo ci furono 75 azioni di guerriglia urbana, fra cui l'attacco ad una
colonna di fascisti in via Tomacelli -10 marzo 1944. Poi gli attacchi al comando tedesco
all'Hotel Flora, al Forte Bravetta, ai camion tedeschi davanti al cinema Barberini, alla
centrale telefonica tedesca della stazione Trastevere. Kappler, al processo per le Fosse
Ardeatine dichiarò: “Nel Tevere spesso venivano ritrovati cadaveri di soldati tedeschi”. E il
comandante delle SS. Dollman disse: “Roma è stata la capitale che ci ha dato più filo da
torcere”.
Nessun dispositivo della sentenza ha ammesso la legittimità dell’uccisione di 10 innocenti
per ogni caduto tedesco. .
La sentenza di primo grado stabilì invece che l'eccidio delle Fosse Ardeatine, per la sua
entità sproporzionata e per le modalità con cui era stato perpetrato, non si poteva
considerare una rappresaglia legittima in base al diritto internazionale bellico.
"agendo con crudeltà verso le persone, con successive azioni esecutive del
medesimo disegno criminoso, senza necessità e senza giustificato motivo, [...]
cagionavano, mediante colpi di arma da fuoco esplosi con premeditazione, a cinque
alla volta, alla nuca di ogni vittima, la morte di 335 persone, in grandissima
maggioranza cittadini italiani militari e civili, che non prendevano parte alle
operazioni militari[...] va negata, [...] la sussistenza delle cause giustificatrici inerenti
alla rappresaglia e alla repressione collettiva".
(Processo Kappler, Tribunale Militare di Roma, sent. n. 631, 20/7/1948)
L'ordine di uccidere 320 ostaggi, che Kappler aveva ricevuto dai suoi superiori, era un
ordine oggettivamente illegittimo. Tuttavia, i giudici, presa in considerazione la rigida
disciplina vigente fra le SS, ritennero non provata la circostanza che Kappler avesse
eseguito l'ordine avendo coscienza della sua illegittimità; pertanto, lo prosciolsero
dall'accusa limitatamente a tali 320 vittime. Lo ritennero invece colpevole dell'omicidio
delle restanti quindici persone, che erano state uccise per effetto di un'iniziativa personale
dello stesso Kappler, i cinque inseriti per errore nelle liste e i dieci aggiunti da Kappler di
sua iniziativa appena saputa la notizia del 33* soldato tedesco morto.
La sentenza di primo grado stabilì invece che l'eccidio delle Fosse Ardeatine, per la sua
entità sproporzionata e per le modalità con cui era stato perpetrato, non si poteva
considerare una rappresaglia legittima in base al diritto internazionale bellico.
"agendo con crudeltà verso le persone, con successive azioni esecutive del
medesimo disegno criminoso, senza necessità e senza giustificato motivo, [...]
cagionavano, mediante colpi di arma da fuoco esplosi con premeditazione, a cinque
alla volta, alla nuca di ogni vittima, la morte di 335 persone, in grandissima
maggioranza cittadini italiani militari e civili, che non prendevano parte alle
operazioni militari[...] va negata, [...] la sussistenza delle cause giustificatrici inerenti
alla rappresaglia e alla repressione collettiva".
(Processo Kappler, Tribunale Militare di Roma, sent. n. 631, 20/7/1948)
La strage si svolse in completa segretezza come confermò Kappler nella sua deposizione:
"I partigiani avrebbero potuto organizzare un attacco fulmineo. L'intera città
avrebbe potuto insorgere. Per ragioni di sicurezza, le esecuzioni dovevano essere
tenute segrete finche' non fossero state portate a termine".
Come la popolazione di Roma anche i partigiani erano all’oscuro di quanto sarebbe
avvenuto. Anche se ipoteticamente l’avessero saputo, consegnandosi avrebbero
compromesso tutta l’organizzazione partigiana -sotto tortura c’era il rischio che avrebbero
parlato- che legittimamente lottava contro l’invasore come acclarato da varie sentenze
della magistratura.
Consegnandosi non avrebbero impedito una rappresaglia già decisa. Hitler e le SS volevano
una rappresaglia dimostrativa.
Salvo D’Acquisto venne fatto prigioniero insieme ad altre persone e stavano per essere
tutti fucilati. A quel punto ci fu il gesto eroico del carabinieri che offrì la sua vita al posto
degli altri ostaggi autoaccusandosi dell’attentato. È utile ricordare che, come Salvo
d'Acquisto, il finanziere Vincenzo Giudice diede la vita per cercare, inutilmente, di evitare
un massacro di civili. Avvenne Bergiola Foscalina (Carrara) il 16 settembre 1944, in
ritorsione per l’uccisione di un SS, il Maggiore Walter Reder ordinò al suo reparto di SS,
supportato dai fascisti delle Brigate Nere, un rastrellamento di civili tra cui donne, anziani e
bambini. Il maresciallo Giudice si propose in cambio dei civili catturati. L'ufficiale tedesco
non accolse la proposta motivandola con un divieto previsto dalla legge militare di guerra.
Il maresciallo Giudice, a quel punto si dichiarò civile togliendosi l’uniforme, ma questo non
portò alcun altro effetto se non quello della sua fucilazione. Furono fucilati donne,
bambini, anziani che subirono anche il vilipendio dei cadaveri con bombe a mano e
lanciafiamme. Le vittime furono -secondo alcune fonti- 72, di cui 43 donne, 14 bambini e
15 adolescenti; mentre altre parlano di 61 trucidati. Tra gli inermi civili uccisi c'erano anche
la moglie e la giovane figlia di Vincenzo Giudice mentre l'altro figlio del maresciallo, tentò
di fuggire durante il rastrellamento venne raggiunto dalle truppe naziste in un campo di
grano e finito con un lanciafiamme.
Non è vero. Kappler offrì al comandante del battaglione che era stato attaccato
l’opportunità di compiere quella che i tedeschi hanno chiamato rappresaglia, ma il
comandante rifiutò perché i suoi uomini, in prevalenza cattolici, non se la sarebbero
sentita di sparare a freddo alla nuca dei prigionieri.
Solo una piccolissima parte arrivarono a via Rasella per caso. Si tratta di alcuni detenuti in
attesa di collocazione nel carcere di Regina Coeli dove erano entrati due giorni prima. Nella
concitazione di arrivare ai 330 uomini da uccidere, nell’attesa che arrivasse la lista
definitiva dal questore Caruso, due ufficiali tedeschi prelevarono alcuni uomini che non
erano stai inseriti nelle liste, tutte composte da antifascisti e da ebrei.
L’italianità non è stato il criterio della strage. Ci sono alcuni non italiani tra gli uccisi alle
Ardeatine e molti italiani tra i collaboratori della strage: Mussolini approvò la strage, come
anche il ministro degli interni della Repubblica Sociale, Guido Buffarini Guidi, il questore
Pietro Caruso che con il suo staff e i dirigenti del carcere di Regina Coeli fornirono i nomi di
50 prigionieri da uccidere. Pietro Koch (italiano a dispetto del nome) e la sua banda
collaborarono a vari livelli con le SS nella strage.
Le vittime vennero scelte perché antifasciste o ebree.
Il furiere Hans Blak, superstite del Battaglione Bozen, interrogato al processo Kappler:
“La rappresaglia alle Fosse Ardeatine fu fatta nel massimo rispetto della legge. Alla fine,
rimasero soltanto Ebrei, comunisti e altra gente così. Nessuno innocente.”